16 maggio 2004, quando il Divin Codino salutò il calcio

Baggio

(Photo by imago/AFLOSPORT)

“Roberto Baggio porta il codino: è troppo eccentrico per non dare nell’occhio. Ancora: il suo gioco è troppo particolare e disagevole per riuscire sempre al meglio. Il pregio di Platini era la semplificazione. Baggio è un asso rococò: mette il dribbling anche nel caffellatte. Solo sul piano balistico eguaglia Platini, non già nella misura del gioco”. Descrivere, rappresentare, raccontare, ritrarre una leggenda richiede la mano, l’occhio, l’animo e la grandezza di un altro gigante. Come si può iniziare a raffigurare l’immagine di uno dei più grandi del calcio, se non facendo appello alle parole di una delle menti più illuminate della storia del giornalismo sportivo: Gianni Brera. Le parole riportate appartengono al suo genio e risalgono al 1992, dedicate a due degli astri più luminosi dell’epoca: Roberto Baggio e Michel Platini.

Il più ordinato dei caotici

17 anni fa, uno di questi due astri, ovvero Roberto Baggio salutava il calcio disputando la sua ultima partita in un tempio del calcio: San Siro. Era il 16 maggio 2004. Ultima giornata di campionato: si gioca Milan-Brescia. I rossoneri hanno già conquistato il 17esimo scudetto da settimane e, La Scala del Calcio, è adibita e preparata solo per rendere omaggio ad uno dei più grandi del pallone. Paolo Maldini lo celebra, lo saluta. La festa tricolore del Milan passa totalmente in secondo piano: quel giorno si saluta il più brasiliano degli italiani, il più ordinato dei caotici. La partita terminò 4-2 ma, ciò che rimase impresso, fu quella mano alzata al cielo del Divin Codino, con semplicità perché erano i piedi a sfoggiare l’imponderabile.

Le parole di Mazzone su Baggio

Baggio lasciava in dote 291 gol in 643 presenze da professionista. Da Vicenza a Brescia, passando per Firenze, Torino (Juventus, ndr), come anche Milano che lo ha visto indossare i colori di ambo le compagini. Un pallone d’oro nel 1993, le storiche lacrime del Mondiale 1994. Baggio è stato ispirazione, la storia di un uomo normale resosi infinito e interminabile. un’impronta indelebile nel calcio e nella cultura di massa, fino a rendersi un emblema di un periodo storico per l’Italia. La grandezza di una leggenda, nel corpo di un uomo con dei valori unici espressi nelle parole del suo ultimo allenatore: Carlo Mazzone. “Era puntuale, serio e la domenica mi faceva vincere. C’era un patto con lui. Non mi piaceva che quando si andava in trasferta i tifosi invadevano l’albergo e lui non aveva un attimo di respiro. Un giorno gli dissi “Quando sei stanco di firmare autografi, ti tocchi la testa e io intervengo”. Ma lui non si toccava mai la testa e allora sbottai “Aho, ma non ce l’hai una testa?”. Lui mi rispose “Mister, come posso deludere gente che ha fatto centinaia di chilometri per incontrarmi?”.