Accadde oggi: il Maracanazo, e il dramma sportivo dell’intero Brasile

(Photo credit should read ANTONIO SCORZA/AFP via Getty Images)

«Era tutto previsto, tranne il trionfo dell’Uruguay.» (Jules Rimet)

Il 16 luglio 1950 va il scena l’ultima partita dei campionati del mondo di calcio, organizzati in Brasile. Ultima partita, e non finale, perché si optò per una formula che prevedeva un girone finale all’italiana da quattro squadre. La vincitrice della “Coppa Rimet” sarebbe stata la prima classificata del girone.

Allo stadio Maracanà di Rio de Janeiro manca solo l’ultimo atto. Si sfidano Brasile, primo nel girone a punteggio pieno, e Uruguay, secondo. Il percorso dei brasiliani era stato dominante per tutto il torneo: 2 vittorie e un pari nel primo girone, e due risultati roboanti nel girone finale. I padroni di casa infatti rifilarono un 7-1 alla Svezia e un 6-1 alla Spagna, nazionali che avevano eliminato (a sorpresa) l’Italia orfana di Superga e l’Inghilterra.

Le dimostrazioni di forza del Brasile sembravano ridurre l’ultimo match ad una formalità, contro un Uruguay che si era qualificato all’ultimo turno giocando una sola gara. Un comodo 8-0 contro la derelitta Bolivia fu più che sufficiente a mandarli al girone finale, grazie anche al forfait della Francia. La Celeste aveva poi vinto a fatica con la Svezia e pareggiato con la Spagna, entrambe le volte in rimonta.

Una partita che tutti, ma proprio tutti davano per scontata: il Brasile, che giocava in casa, che aveva dalla sua una folla oceanica di tifosi, che aveva passeggiato sulle avversarie per tutto il torneo e che vantava tra le sue fila campioni del calibro di Jair, Zizinho e Ademir, avrebbe stravinto. E per aggiudicarsi il titolo, gli sarebbe bastato un pari.

Voi, brasiliani, che io considero vincitori del Campionato del Mondo. Siete voi che io saluto come vincitori!

Così parlo prima della gara il prefetto federale di Rio, Angelo Mendes de Morais. Tutti erano convinti. Tranne gli uruguaiani.

“Quelli là fuori non esistono!”. Così disse Obdulio Varela, capitano dell’Uruguay, ai suoi compagni di squadra. Si riferiva ai quasi 200mila spettatori  dello stadio Maracanà di Rio de Janeiro, pronti a incitare la Seleçao nella partita decisiva. E tanta e tale era la convizione che i giocatori brasiliani vennero accolti al Maracanà da striscioni di saluto “ai campioni del mondo”.

Le cose, però, andarono diversamente. I giocatori della Celeste ascoltarono in pieno il consiglio di capitan Varela e davvero giocarono come se i 200mila supporter carioca sugli spalti (record di spettatori tuttora imbattuto) non esistessero. E non si abbatterono nemmeno quando i padroni di casa passarono in vantaggio, grazie a un gol di Friaça.

Al 66esimo infatti Schiaffino mise dentro il pareggio, ammutolendo la folla sulle tribune. E quando a 10 minuti dalla fine Ghiggia siglò il 2-1 per la Celeste l’intero Brasile gelò.

Alla fine l’Uruguay del ct Fontana si laureò, contro ogni pronostico Campione del Mondo. Il Brasile, che negli anni a venire sarebbe diventato la Nazionale più forte e vincente, subì una traumatica lezione di umiltà. Episodi di psicosi collettiva si verificarono nello stadio e in tutto il paese. Il portiere Barbosa, considerato responsabile dei due gol subiti, sarà trattato da parìa per il resto della vita. Una disfatta che fece coniare un termine apposito, derivato dal nome dello stadio di Rio: quel giorno fu il “Maracanazo”.