Da Marco Rossi a Pirlo: la meritocrazia nel calcio italiano

Ci sono tanti lavori in cui l’unico modo per fare strada è il nome. Quante volte vengono fuori scandali di persone messe in una data posizione, magari, in un’azienda solo per via del nome pesante? Troppe. Non ci siamo mai chiesti, o ce lo siamo chiesti troppo poco, però, se queste dinamiche sono presenti anche nel mondo che amiamo e ci fa divertire: il mondo del calcio.

D’altronde, pensateci, come viene ripetuto spesso, le società sono aziende. Sono formate da dirigenti scelti dal presidente, hanno un bilancio e via discorrendo. L’allenatore stesso è un dirigente. Il direttore dei giocatori, quello che si occupa di gestirli in campo e fuori e che più di tutti dipende dai risultati.

Ecco perchè, se si parla di meritocrazia, il dirigente più facile da esaminare per capire se manca o se esiste è proprio l’allenatore. I risultati, d’altronde, sono sotto gli occhi di tutti. Se uno retrocede è scarso, se uno vince è forte. A parte eccezioni come, per esempio, De Zerbi chiamato alla guida di un Benevento già spacciato e che ha saputo rimandare il più possibile la retrocessione, il succo è questo.

Prendiamo in esame il calcio italiano e partiamo, subito, dalla risposta alla domanda: è meritocratico? No, secondo Marco Rossi, ex difensore di A e allenatore di Serie C che in Italia era arrivato al punto di cercarsi un lavoro alternativo e, ora, invece, sta guidando l’Ungheria a grandi traguardi. Ecco le sue parole:
“Data la mia esperienza, posso dire che l’Italia non è un paese meritocratico in panchina. In Italia è importante conoscere qualcuno che sappia darti un’opportunità. Io non ce l’ho avuta, nonostante salvezze miracolose. Se ti apri al mercato europeo o mondiale, invece, le chance di lavorare aumentano”.

Parole che trovano conferme nell’attuale panorama. Ci siamo abituati, d’altronde, a vedere sulla panchina delle big quasi esclusivamente ex calciatori che hanno fatto la storia, che sono stati importanti. Conte ha vinto una Champions e tanto altro con la maglia della Juventus di cui è stato anche capitano, Pirlo è stato uno dei centrocampisti più forti della storia, Gattuso ha vinto di tutto con Milan e Nazionale. Perfino Pioli è stato per anni difensore della Juventus. L’unica vera eccezione è rappresentata da Fonseca che, però, prima di arrivare in Italia, ha fatto il suo percorso in Portogallo e Ucraina. Qui, dunque, è arrivato il prodotto finito.

Se, però, Marco Rossi, il cui valore si sta vedendo da CT dell’Ungheria, non riusciva a salire di categoria pur dando vita a salvezze clamorose, questi allenatori delle big cos’hanno fatto per meritarsi una panchina tanto prestigiosa? Riavvolgiamo il nastro fino alla loro prima esperienza in una big. Conte arrivò alla Juve dopo la promozione col Siena, ma il motivo principale fu il suo passato da calciatore bianconero perfetto per riportare juventinità in un momento negativo. Stesso dicasi per Gattuso quando gli venne affidata la panchina del Milan.

Il caso più clamoroso in questo senso, però, è quello di Andrea Pirlo scelto dalla Juventus senza che avesse mai allenato. Ritrovatosi, dunque, direttamente su una panchina di una big senza esperienze alle spalle. Nessuna gavetta.

Un posto che, magari, dimostrerà di meritare in questa stagione e in futuro, ma che, al momento della sua nomina, stando ai meriti, sarebbe potuto andare ad altri. Allenatori come Marco Rossi, appunto, con un curriculum alle spalle di esperienze positive. Un tecnico che si è meritato una big senza una grande carriera da calciatore.

Magari senza aver fatto il calciatore. In Italia, d’altra parte, non ci facciamo più caso, è rarissimo vedere un allenatore che non ha proprio mai giocato, ma che è arrivato al top grazie alla gavetta e a un percorso importante. Grazie al merito di cui parlavamo, appunto.

Per capire, un Arrigo Sacchi. Allenatore importante arrivato al Milan, con cui ha vinto e rivoluzionato il calcio, non avendo giocato da professionista. Lui era un allenatore e basta.

L’unico esempio simile degli ultimi 20 anni è Maurizio Sarri, la cui gavetta è stata infinita e che è riuscito a emergere grazie a un calcio spettacolare. Un gioco che non poteva restare confinato tra Serie C, Serie D ed Eccellenza.

La meritocrazia, dunque, anche nel calcio italiano esiste fino a un certo punto. Esattamente come tutti gli altri mondi lavorativi. D’altronde è proprio vero che tutto il mondo è paese.