Di Francesco, l’allievo di Zeman che non supera il maestro

Di Francesco

(Photo by Enrico Locci/Getty Images)

Inutile girarci intorno, dopo la sconfitta di ieri sera contro il Milan la panchina di Eusebio Di Francesco è meno sicura che mai. Il Cagliari ha raccolto la quinta sconfitta consecutiva, che ha fatto precipitare i sardi a un solo punto dalla zona retrocessione. Un tracollo che di certo non farà piacere al presidente Giulini, e che getta un’ombra lunghissima sull’allenatore pescarese. Che, dopo il biennio alla Roma è entrato in una spirale che ricorda molto da vicina quella di Marco Giampaolo, nato a Bellinzona ma cresciuto a Giulianova, allievo di Galeone, da ieri senza squadra.

Conterranei, coetanei, visionari, ma diversi. Di Francesco è cresciuto nel mito di Zeman e del calcio offensivo, ma senza averne mai adottato l’integralismo. Questione, viene da pensare, caratteriale. Il boemo non era uomo da mezze misure né da concessioni. Di Francesco sì, ed è stata la sua fortuna, almeno sin qui. A Sassuolo e a Roma, le tappe fondamentali della sua carriera, si sono divertiti vedendo squadre capaci di prescindere dal dogma del 4-3-3. Ma non da quello del calcio verticale, alla ricerca ossessiva del gol e della porta avversaria. Concedendo qualcosa in difesa, certo, ma mai quanto il maestro.

Anzi, nella sua prima stagione alla guida della Roma, Di Francesco sorprese per equilibrio: alla fine della stagione chiuse al terzo posto, con 61 reti fatte e solo 28 subite. Lo spettacolo, quell’anno, si vide soprattutto in Champions League. I giallorossi si fermarono a un passo dalla finale, dopo aver rimontato il 4-1 subito dal Barcellona nei quarti e, per un pelo, il 5-2 patito a Liverpool. Al ritorno, finì 4-2 per la Roma, e Di Francesco in quel momento era all’apice della carriera. L’equilibrio, però, si spezza l’anno successivo, quando le eliminazioni in Coppa Italia e in Champions League convincono Pallotta a sostituire Di Francesco con il più concreto Ranieri.

Una sliding door che i due rivivranno poco tempo dopo. Di Francesco riparte dalla Sampdoria, che sembra la piazza giusta. Abituati al bel calcio di Giampaolo, i blucerchiati accolgono il nuovo allenatore a braccia aperte. Salvo salutarlo, senza grosso rammarico, dopo appena sette partite: sei sconfitte, una vittoria, e il bel gioco che non arriva. Certo, sette giornate per costruire qualcosa di buono sono davvero poche, ma abbastanza per sostituirlo, di nuovo, con Ranieri.

A Cagliari, intanto, è passato quasi un intero girone, gli infortuni non hanno aiutato la squadra, il gioco non è da buttare, ma i risultati sono quelli che sono. E parlano, freddamente, di 36 reti subite, la peggior difesa della Serie A, unico barlume del retaggio calcistico di Zeman. Davanti, invece, i gol sono 23, gli stessi dello Spezia, tre in meno del Torino.

Se non è un disastro, poco ci manca. Il progetto, per ora, è salvo, perché i dirigenti del Cagliari sanno essere pazienti. E, soprattutto, riconoscono a Di Francesco tutte le sue qualità: lavora bene e tanto con i suoi ragazzi, li sa motivare e insegna calcio. Proprio come il suo mentore, sicuramente con meno durezza, nella speranza che chi scende in campo sappia dare contenuto alla teoria. E tradurlo in risultati, che se non sono l’unica cosa a contare, adesso iniziano a servire come l’ossigeno. Anche perché, il confronto con il Cagliari di Maran, allenatore conservatore e “noioso”, inizia a farsi imbarazzante.