I costi, insostenibili, del calcio

Non c’è un settore economico che si salvi. La pandemia ha precipitato le economie occidentali nella crisi peggiore da decenni, e le stime per l’Italia si fanno di settimana in settimana più drammatiche. Secondo le ultime stime della Commissione Europea, l’economia della zona euro subirà una contrazione del 7,8 % nel 2020, prima di crescere del 4,2 % nel 2021 e del 3 % nel 2022. In soldoni, si dovrà attendere, presumibilmente, il 2023 per tornare ai livelli pre crisi. Per l’Italia, lo scenario è persino peggiore: Pil al -9,9% a fine anno, e rimbalzo leggermente sotto la media nel 2021 e nel 2022. Peggio di noi, con un crollo atteso del 12,4% (ma un recupero più rapido negli anni a venire) fa solo la Spagna: -12,4%.

E il calcio? Nello “European Economic Forecast. Autumn 2020”, pubblicato dalla Commissione Ue il 5 novembre, non è ovviamente contemplato. Ma non ce n’è bisogno, perché, come qualsiasi altro settore, sconterà evidentemente le difficoltà economiche del contesto in cui è inserito. Oltre, ovviamente, a dinamiche tutte del calcio, a partire dalla chiusura degli stadi, che dura ormai da marzo. Il contesto è economicamente tragico, ma non tutti sembrano accorgersene. Eppure, solo tre giorni fa, il 9 novembre, il Consiglio Federale ha spostato i termini dei pagamenti degli stipendi del primo trimestre della stagione al primo dicembre. Il presidente della Serie A, Paolo Dal Pino, il 31 ottobre parlava apertamente di “calcio italiano vicino al collasso economico-finanziario”.

Tra 18 giorni, in sostanza, ci sono da pagare 300 milioni di euro di stipendi. Soldi che 15 società fanno fatica a reperire, aspettando l’intervento del Governo per non annaspare, e 3 di queste che rischiano invece di affogare, perché non hanno ancora pagato gli ultimi stipendi della scorsa stagione. Non ci voleva una pandemia per portare alla luce la fragilità economica del calcio italiano, ma almeno che la crisi non passi invano. Le difficoltà portano, gioco-forza, cambiamenti, nel bene e nel male: perché non riformare dalle fondamenta il modello gestionale della Serie A?

E non serve guardare alla NBA, esempio troppo distante e diverso, seppure funzionale, in cui il salary cap viene deciso anno per anno, al termine di una contrattazione fra squadre, giocatori e Lega. Ecco: contrattazione è la parola giusta, quella che manca, per non affogare oggi e per non andare alla spicciolata domani. Lo stipendio è un diritto, anche quando si guadagnano milioni di euro l’anno. Ma porre dei paletti, e soprattutto costruire un modello sostenibile, in cui i salari siano legati non tanto ai bilanci delle società, quanto ai fatturati della Serie A, non è un’eresia.

Del resto, oggi le trattative tra club e giocatori sono serrate non solo in Italia, ma anche in Spagna. La Liga è in difficoltà proprio come la Serie A, e la situazione che vive il Barcellona ne è un esempio lampante. Dopo i tagli estivi, sotto forma di cessioni, sembra che il club catalano abbia chiesto, ormai da qualche settimana, un ulteriore sacrificio ai propri dipendenti: la rinuncia del 30% dello stipendio. Compresi i calciatori. Anzi, soprattutto i calciatori, la voce più pesante dei bilanci dei club. Vedremo come andrà a finire.

Tornando alle vicende di casa nostra, in un contesto del genere, leggere delle richieste di alcuni big della Serie A per rinnovare con le proprie squadre, suona quantomeno stonato. Per carità, è il mercato, ma in un calcio che annaspa è lecito attendersi un segnale di normalità. Al di là e al di fuori di ogni retorica: in questo momento si rischia di tirare una corda ben stretta intorno al collo dei bilanci morenti delle squadre di Serie A. Davvero per qualcuno può valerne la pena?