La redistribuzione della ricchezza: viva la classe media del calcio

Redistribuzione delle risorse per garantire la competitività della Serie A

(Photo by Marco Luzzani/Getty Images)

Tra i tanti effetti negativi della pandemia, c’è la contrazione del potere di acquisto. Non una dinamica nuova, perché l’erosione del reddito delle classi medie è tema importante da tempo. Così come la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, un aspetto connaturato nel Capitalismo moderno, che il Covid-19 ha, indirettamente, acuito. Cosa c’entra, si potrà legittimamente chiedere, con il calcio? C’entra, e la chiave è nella redistribuzione della ricchezza. Necessaria nella vita reale – di cui il pallone fa comunque parte – per garantire una crescita costante ed equa dei consumi, e quindi dell’economia reale.

Ma la redistribuzione è anche la risposta, indiretta, all’analisi di Andrea Agnelli di due giorni fa. Il presidente della Juventus, tra i tanti punti, ha toccato anche quello della competitività, se così possiamo definirla, di alcune squadre e alcuni tornei. “Molto probabilmente ci sono troppe partite che non sono competitive, sia a livello nazionale che a livello internazionale”. Difficile dargli torto. Chi segue il calcio da tanto tempo non ha potuto non notare che, da quando la Serie A è a 20 squadre e con 3 retrocessioni, in troppi, a mesi dalla fine del campionato, non hanno alcun obiettivo per cui lottare.

Da qui, il ragionamento e la conclusione più semplice: riduciamo il numero delle squadre, magari tornando a 18. Così com’era fino a qualche anno fa, e come è ancora oggi, ad esempio, in Bundesliga. Una soluzione sensata, immediata. Che, però, risponde solo ad una parte del problema. L’altra è come rendere competitivi i piccoli club, e rendere quindi contendibile un campionato che, da vent’anni esatti, è diventato una questione a tre. E torniamo al punto di partenza: la redistribuzione della ricchezza del calcio, generata in larga parte dai diritti Tv. Che, dal 2019, sono suddivisi secondo criteri decisamente democratici: il 50% suddiviso in parti uguali, il resto in base a risultati sportivi e radicamento territoriale.

Non basta. Perché il divario tra le grandi e le altre è diventato incolmabile. La sensazione è di aver chiuso il recinto con i buoi scappati già da un po’. La certezza, malinconica, è invece quella di non poter assistere, stando così le cose, a nessuna favola Leicester. Ma anche a nessuna Sampdoria del 1991, e a nessun Hellas Verona del 1985. Specie se non si trova il modo di valorizzare, nel suo insieme, la Serie A come prodotto vendibile all’estero. Sulla falsa riga di quanto ha saputo fare la Premier League, brava poi a redistribuire le risorse in maniera tale da permettere anche a club come Everton, West Ham, Tottenham, Leicester di competere con le grandi. Vero che Liverpool e City hanno “ucciso” gli ultimi due campionati, ma la metà delle squadre di Premier, con ogni probabilità, si giocherebbero lo scudetto.

In conclusione, il tema sollevato da Andrea Agnelli, che guarda all’evoluzione del rapporto tra appassionati e calcio, legittimamente, per anticipare il futuro, è di importanza capitale. Ma affrontarlo con un approccio monodimensionale che prevede solo un ripensamento dei format e una riduzione delle squadre, non basta. Non può bastare se si vuole davvero riconquistare il tifoso, quello che va allo stadio, compra le maglie originali e si abbona ai pacchetti delle pay-tv. Il tifoso che, immaginiamo, vive di emozioni. Che solo una maggiore competitività, come sostiene giustamente il presidente della Juventus, può garantire.

Tornare ad una Serie A a 18 squadre sarebbe una soluzione parziale, che non affronterebbe i problemi ormai storici del calcio italiano, sempre più indietro, all’estero e al botteghino, rispetto a Premier League, Liga e Bundesliga. E i risultati sono un campionato noioso e una serie infinita di fallimenti delle squadre italiane in Europa. Serve la classe media, schiacciata dall’aristocrazia, per risollevare le sorti del calcio italiano.