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“Chi dice che una cosa è impossibile, non dovrebbe disturbare chi la sta facendo.” (Albert Einstein).

Trasformare la fantascienza in realtà.

Realizzare quello che i tuoi predecessori non hanno neanche lontanamente immaginato nei quarantacinque precedenti, lunghi, anni.

Giocare con la psiche di campioni affermati, ottenere il massimo.

Guardare più in giù, a ridosso del baratro e spiccare un salto all’indietro, il più in alto possibile.

Toccare il cielo con un dito. Rendere terrestri i marziani.

L’estate del 2009 sulla sponda nerazzurra del Naviglio è turbolenta.

Josè Mourinho è irrequieto. Ha una rosa extra-large ed incompleta allo stesso tempo.

Il diktat del Presidente Moratti è chiaro, essere maggiormente protagonisti in Europa. In Italia l’abisso con le avversarie è troppo ampio per essere soddisfatti.

D’altronde, lo Special One è stato ingaggiato per portare quel quid in più in ambito internazionale.

Il portoghese chiede un centravanti, un trequartista, un centrocampista ed un difensore centrale. Sono arrivati dal Genoa Milito e Thiago Motta, un po’ poco per nutrire velleità continentali.

I desiderati di Mou sono noti, i fedelissimi Deco e Carvalho.

A complicare la situazione, se ve ne fosse bisogno, i continui mal di pancia della punta di diamante, Zlatan Ibrahimovic.

Josè spinge sull’acceleratore sottolineando le differenze in termini di look e di poteri tra lui ed il mago dei maghi, Harry Potter.

Non c’è tempo, la tournée estiva negli USA è alle porte.

La grana Ibra aleggia sul capo della Beneamata. I malumori dello svedese decidono, di fatto, il corso di una stagione non ancora iniziata.

L’operazione di mercato è di quelle clamorose.

Zlatan in Catalunya in cambio del fresco campione d’Europa Samuel Eto’o, oltre ad un robusto conguaglio economico.

E’ la scintilla

All’ombra della Madonnina giungono Lucio e Sneijder. Apparentemente due scarti di Bayern Monaco e Real Madrid.

Via gran parte dello zoccolo duro dello spogliatoio, Cruz, Crespo, Burdisso, Maxwell, Figo.

Mourinho è accontentato. Tocca a lui.

L’inaspettata debacle in Supercoppa Italiana contro la Lazio non lascia presagire nulla di buono, ancor meno la stecca alla prima di campionato a San Siro con il neopromosso Bari.

Un misero 1-1.

(Photo by Claudio Villa/Getty Images)

Il trionfo nel derby con il Milan ed il primo posto velocemente conquistato e consolidato in Serie A, danno un po’ di respiro ai neroazzurri.

Il vero banco di prova, inutile negarlo, è in Champions League.

Il sorteggio dei gironi lascia intravedere un secondo posto comodo, alle spalle degli onnipresenti catalani e davanti a Dinamo Kiev e Rubin Kazan.

Eppure per 89 interminabili minuti l’Inter è inghiottita nel fragore del fallimento.

Dopo tre pareggi iniziali si gioca tutto a Kiev, nella tana dell’ex incubo rossonero Shevchenko.

La serata appare stregata. L’Angelo Biondo porta subito in vantaggio gli ucraini: per Zanetti e compagni è notte fonda.

Tentativi sterili, isterici, disorganizzati, per rimettere in piedi il match.

A quattro minuti dalla fine, però, Sneijder pesca Milito in area, tocco sporco di sinistro a prendere in controtempo Bogush e a strappare l’Inter dalle grinfie del destino.

Non basta. Serve gettarsi in avanti. Il cuore oltre l’ostacolo, come nel rugby.

Non è casuale che il gol decisivo arrivi proprio da un’azione simil rugbistica.

Tacco di Balotelli al limite dell’area-bomba di Muntari che passa sotto la pancia del portiere ucraino e sta per uscire lentamente fuori dal campo-sprint di Milito a rimettere in mezzo la sfera-irruzione di Sneijder a calciare tutto quanto palesatosi davanti a lui finendo egli stesso in rete in compagnia del pallone.

Il video della pazza corsa di Mou ad abbracciare Julio Cesar diventa virale.

Il portoghese ammetterà di aver rischiato lo strappo muscolare nel gelo ucraino.

I nerazzurri sono vivi

Per la qualificazione matematica sono sufficienti 3 punti nelle successive due partite. Arrivano comodamente nell’ultima sfida del girone, al Meazza contro il Rubin Kazan, 2-0 ed ottavi di finale.

Mourinho contro il suo passato, il Chelsea, nella cui panchina siede un ex rossonero, Carletto Ancelotti.

Che mefistofelica magia il destino!

Il mercato invernale porta in dotazione un attaccante esterno, ex promessa della cantera interista, Goran Pandev.

Lo Special One comprende che per impensierire le big europee è necessario un cambio di modulo. Uno schema che permetta ai suoi giocatori, per la maggior parte ultratrentenni, di correre poco ma ottimamente, di occupare meno campo ma meglio degli altri.

Si passa al 4-2-3-1. Già.

Chi lo dice ad Eto’o che dovrà sacrificarsi sulla fascia sinistra, ripiegare difensivamente, trasformarsi in terzino all’occorrenza? Come può il centravanti campione d’Europa accettare un simile “declassamento”?

L’umiltà è una caratteristica del fenotipo fuoriclasse. Serve solo toccare le corde giuste. E in questo Mourinho è un maestro.

La sperimentazione del nuovo modulo porta a qualche, inevitabile, frenata in campionato. I dubbi vengono dissipati in un battito di ciglia nella doppia sfida con i Blues di Londra.

Milito e Cambiasso marchiano il sofferto 2-1 in casa.

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La prestazione coriacea degli interisti allo Stamford Bridge verrà sublimata proprio dal camerunense che staccherà il biglietto per i quarti di finale.

L’Inter ha assunto un livello di consapevolezza incredibile. Quella che serve per eliminare, con il minimo sforzo, i campioni di Russia dello Cska Mosca ai quarti di finale.

1-0 di misura sia all’andata che al ritorno.

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MOSCOW, RUSSIA. APRIL 6, 2010

El Principe del Bernal e il numero dieci olandese sugli scudi.

Il Biscione non gioca una semifinale di Champions League dal 1981.

Sul cammino della Beneamata, neanche a dirlo, il Barcellona.

La sfida è impari. I catalani incantano, da un biennio, l’intero gotha calcistico con la filosofia rivoluzionaria di Pep Guardiola, il tiki taka.

Gli avversari vengono fagocitati nel possesso palla estenuante e scientifico. Puniti alla prima distrazione.

Messi, Xavi, Iniesta, Puyol, Piqué, Dani Alves, quoque tu Zlatan Ibrahimovic. Nomi da mal di testa solo a leggerli in distinta.

L’Inter ha già affrontato due volte il Barcellona nel corso della stagione. Il giudizio è netto. Due prove incolori in cui, spesso, l’undici nerazzurro ha corso a vuoto.

Occorre un’organizzazione fuori dal comune, subire poco, creare molto, segnare. Dura tradurlo sul campo.

Josè ha una folgorazione.

La migliore qualità dei catalani è quella di recuperare palla, gettandosi in avanti per finalizzare con le bocche di fuoco in rosa.

Concedere il pallino a Messi e compagni può essere, paradossalmente, il corto circuito che può mandare in tilt il filo conduttore del gioco di Guardiola.

Giocare di rimessa. Le ripartenze dovranno essere letali.

D’altronde Dani Alves e Maxwell sulle fasce non sono difensivamente irreprensibili.

La strategia è rischiosa. Il gioco vale la candela.

Il gol di Pedro sembra spegnere sul nascere ogni tentativo bellicoso della Beneamata.

L’Inter riprende come se nulla fosse e il match segue pedissequamente il corso disegnato dallo Special One nel suo ufficio di Appiano Gentile.

Thiago Motta e Cambiasso salgono in cattedra con un pressing asfissiante, il Barcellona si getta scriteriatamente in attacco per trovare il secondo gol, prestando il fianco ai contropiede.

L’errore è fatale per i catalani. Sneijder, Maicon e Milito ne approfittano.

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Il tabellone recita, Inter- Barcellona 3-1.

Il pubblico sugli spalti è incredulo, ancora di più i giocatori in campo e gli staff in panchina. Tutti tranne uno. José da Setubal.

Gli undici di Guardiola si riversano rabbiosamente nell’area nerazzurra. Troveranno un muro, invalicabile.

Il Barcellona dei marziani travolto dall’Inter dei terrestri.

Maurizio Compagnoni, in telecronaca per Sky, metterà a dura prova la sua ugola. Ne varrà la pena.

L’epilogo è storia ben nota. Il ritorno al Camp Nou assumerà i contorni di un poema epico.

In inferiorità numerica per sessanta minuti, dopo l’espulsione di Thiago Motta, la squadra del Biscione subirà pochissimo. Merito di un fortino funzionante come un orologio svizzero, vittima di poche crepe solo nei minuti conclusivi.

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La finale di Madrid contro il Bayern Monaco avrà l’immagine di una passeggiata rispetto all’autentico miracolo compiuto un mese prima.

La Champions League sarà un dolce premio per la tenacia ed al coraggio.

Il giusto tributo ad atleti che, per motivi anagrafici, hanno tentato un all-in con i propri sogni.

La carezza di addio dello Special One nei confronti di un pubblico che lo ha percepito come un compagno di tifo.

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Le notti europee di chi, per lungo tempo, si è guardato allo specchio vedendo un rospo risvegliandosi, improvvisamente, Principe.