Tra giustizia e giustizialismo, ci perde il calcio italiano

Il calcio non può esistere senza tifosi. Il tifo, la parzialità, la partigianeria, è elemento essenziale, più che in qualsiasi altro sport di squadra. È un aspetto connaturato a chiunque segua il calcio: nessuno di noi, di fronte ad una partita di Terza Categoria, può esimersi dallo schierarsi e dal parteggiare. Nulla, come il calcio, spinge a prendere posizione e cavalcare lotte che, spesso e volentieri, diventano di principio. Specie in Italia. Dove, e non è certo un caso, l’esempio dello stadio è spesso portato ad esempio negativo, come luogo dello scontro becero e della caciara. Pensiamo alla politica, che in Parlamento e nei talk show troppo spesso va allo scontro frontale senza capire neanche di cosa si stia parlando. Ridisegnando i confini di una disputa che, più che altro, è guerra di posizione, presidio, scontro tra fazioni. O meglio, tra tifosi. In cui tutto è lecito.

Uno schema mutuato dal calcio, dove il contorno è ben più importante del campo. Sarà che una partita di 90 minuti non offre abbastanza spunti per alimentare le chiacchiere, perlopiù sterili, di cui vivono, legittimamente, giornali, radio, televisioni e social. Proprio come la politica: a chi importa, ormai, il dibattito sul merito di un Decreto Legge o di una manovra finanziaria? Così, l’orizzonte si allarga, e dentro al calderone finiscono materie ben più delicate e complesse del calcio. Sostanzialmente due: la giustizia e l’economia.

L’economia, in effetti, è una novità, almeno relativamente. Le questioni di bilancio, specie dopo i crack Parmalat e Cirio ed i fallimenti di due nobili del calcio italiano come Fiorentina e Napoli, sono diventate improvvisamente argomento di dibattito. Potremmo dire “da bar”, ma senza alcun tipo di accezione negativa: al bar parlano tutti, anche gli economisti, per cui il bar è il luogo giusto per parlare di qualunque cosa. Anche se superficialmente. Comunque sia, oggi orde di tifosi elucubrano su calciomercato e futuro senza più alcuna capacità di sognare. Azzerata dalla forza delle questioni di bilancio.

Calcolatrice alla mano, si ragiona non più e non solo di acquisti e cessioni, ma anche si sforamento, debiti, quote azionarie, assetti societari, quotazione in Borsa. Per non parlare delle questioni di politica internazionale che, volenti o nolenti, pesano come un macigno sul futuro dei club, italiani e non. La giustizia, invece, accompagna da decenni la storia del calcio italiano. Potremmo dire da sempre. Proprio come accompagna la politica. Del resto, il primo scandalo della storia unitaria italiana risale alla fine dell’Ottocento, e coinvolge i protagonisti della scena politica dell’epoca: Giolitti e Crispi.

Allo stesso modo, la corruzione, le partite comprate e gli scandali sono di casa nel mondo del calcio prima ancora della nascita del campionato a girone unico. Il caso Allemandi, torbida questione di combine mai del tutto chiarita, risale alla stagione 1927/1927, e portò alla revoca del titolo vinto dal Torino. Calciopoli è stato invece il più roboante degli scandali, anche perché ha coinvolto il club più vincente, tifato, e parimenti odiato, d’Italia. In comune, queste ed altre vicende, hanno un aspetto: la sete di giustizia. Che, però, non ha molto a che fare con quella dei Tribunali.

No, quella dei tifosi è una sete di giustizia semidivina. Fatta d aspettative costruite da una narrazione giornalistica alla ricerca più della copia venduta che della verità. Un racconto urlato, troppo spesso fazioso, di parte. Perché è difficile raccontare le questioni di calcio senza lisciare il pelo al tifoso che è insito dentro ognuno di noi. Anche a costo di trasformare la voglia di giustizia in sete di giustizialismo. Qualcosa che l’Italia conosce bene, benissimo. E se Tangentopoli è stata, storicamente, fondamentale per alzare il coperchio su un sistema marcio, la caccia all’uomo e i cappi in Parlamento non sono una delle pagini migliori della Prima Repubblica.

Allo stesso modo, la rincorsa allo scandalo giudiziario, che ha portato sindaci di grandi città, senza fare nomi, a dimettersi per una Panda parcheggiata in divieto di sosta, non ha portato alcun miglioramento in seno alla classe dirigente del nostro Paese. Ma l’amore per la gogna pubblica non si è mai sopito. Neanche nel calcio. Dove il tifoso veste un giorno i panni della pubblica accusa e il giorno successivo quelli dell’avvocato della difesa. Scrivendo sentenze scopiazzate dai giornali, e gridando allo scandalo per sentenze che, a suo dire, sono troppo tenere o troppo gravi.

E poco importa che la giustizia, quella dei tribunali non quella divina, abbia fatto il suo corso, accertato le responsabilità ed emesso il proprio verdetto. Che, alla fine della fiera, è meno importante di quello scritto, con una bella dose di faziosità e di noncuranza, da giornali troppo spesso pronti a sbattere il mostro in prima pagina, e mai altrettanto celeri nel fare un passo indietro o, più banalmente, limitarsi per una volta a riportare i fatti. Il riferimento alla vicenda Lazio e tamponi è del tutto non casuale.