Zdenek Zeman, raggiunge quota 1000 panchine in Italia

(Photo by Gabriele Maltinti/Getty Images)

Era il 21 agosto 1983, da quella data iniziò la lunga carriera da allenatore di Zdnek Zeman. Allora il giovane tecnico, sedeva per la prima volta su una panchina professionistica, quella del Licata. La partita era un Derby di Coppa Italia, gli avversari erano l’Agrigento Akragas. Dopo diversi anni nel calcio dilettantistico, sempre in Sicilia, arriva con il Licata la grande occasione per il tecnico allora 36 enne. Da li in poi di anni ne sono passati 38 e quel giovane ragazzo, sempre contraddistinto dalla sigaretta, di anni ne ha 74 e domenica scorsa con il Foggia ha raggiunto la panchina numero 1000 in Italia. Solo il tempo passato fa capire che le cose cambiano, infatti il modulo di Zeman continua ad essere il 4-3-3, l’atteggiamento è sempre lo stesso e soprattutto i cori che si alzano dalla curva.

A ripercorrere la sua lunga carriera, fatta di gioie e dolori, di successi e sconfitte, di giovani talenti lanciati e di risultati strabilianti, è proprio lo stesso Zeman, in un’intervista a la Gazzetta dello Sport. Il boemo ha ripercorso gli inizi ed ricordato il mitico Foggia in Serie A, ricordato le partite più significative e le sue cause portate avanti fuori dal terreno di gioco.

Il ricordo della prima e le sensazioni della n°1000

Mi ricordo che faceva tanto caldo…finì 1-1, meritavamo di vincere ma sbagliammo troppe occasioni…”. – la numero 1000 – “Mi fa capire che gli anni sono passati… Ma che qualcosa di buono devo averlo fatto per raggiungere un numero così alto di panchine“.

Le partite più significative

In un lontano Udinese-Foggia ci ritrovammo in nove uomini, ma in campo sembravamo in 12: movimenti perfetti, pareggiammo. Il mio Licata in Serie C ha forse interpretato al meglio le mie idee… Ma se do queste risposte mi prendete per matto. E allora ammetto che il Foggia dei miracoli nel primo anno in A e quello che nel secondo arrivò nono pur avendo cambiato dieci undicesimi della squadra, rappresentò una rivoluzione. Che l’8-2 della Lazio alla Fiorentina di Ranieri, Batistuta e Rui Costa e il 4-0 alla Juve di Lippi, Del Piero e Vialli, furono spettacolo puro. E che il 5-0 della mia Roma al Milan di Capello, non fu una brutta partita… Il mio Lecce ebbe il secondo attacco della A, con 66 gol uno in meno della Juve campione. E non dimentico tante partite del Pescara che venne in A, quando Verratti, Immobile e Insigne erano solo bambini e non ancora campioni d’Europa“. – aggiunge – “Totti è stato il più grande di tutti, ma il suo talento non è stato merito mio. Signori quando lo volli non aveva mai segnato e divenne un bomber implacabile. Ma la soddisfazione maggiore è stata mandare in Nazionale da club piccoli, giocatori che non ci si erano mai avvicinati“.

Un Maestro senza trofei e le battaglie fuori dal campo

Ringrazio chi lo dice, ho sempre pensato che per vincere bisognasse segnare un gol in più dell’avversario. E questo ho sempre chiesto alle mie squadre. Non è vero che non curavo la fase difensiva, ma l’obiettivo è sempre stato imporre il gioco, cercare il gol e soprattutto divertire il pubblico. Il mio calcio non è mai stato utopia: ho sempre inseguito anch’io il risultato, ma cercando di ottenerlo attraverso lo spettacolo e la bellezza, nel rispetto delle regole e di chi faceva sacrifici per venire allo stadio. Magari non sempre ci sono riuscito, ma non ho mai smesso, né smetterò mai di pensare che questa era è e sarà sempre la strada giusta“. – se rifarebbe le battaglie fatte fuori dal campo – “Senza nessun dubbio. Non mi sono mai pentito di quel che ho detto e sostenuto. Il tempo mi ha dato ragione e il riconoscimento della gente ancora oggi è per me motivo di grande orgoglio. Ho sempre cercato di difendere i valori dello sport e del calcio. Vincere barando, non rispettando le regole o, peggio ancora, mettendo a rischio la salute degli atleti è una pratica criminale. Sono scoppiati scandali, ci sono stati processi sportivi e ordinari, condanne. È stato dimostrato che c’era tanto marcio. Non so quanto le mie parole siano servite a sollevare il coperchio sulla deriva che il calcio stava prendendo. Ma so che tanti all’interno del Sistema sapevano e speculavano perché su quelle derive si costruivano vittorie e fortune, si esaltavano o affossavano carriere. Io ho solo detto ciò che ritenevo giusto. Mi addolora solo sapere che a pagare il prezzo delle mie denunce siano state anche le mie squadre in campo”.

Il bilancio finale

Io mi sono divertito… Ringrazio i giocatori che mi hanno seguito e permesso di farmi conoscere e i presidenti che mi hanno dato un’opportunità, soprattutto quando era rischioso farlo. Spero di aver divertito chi è venuto a vedere le partite e di continuare a farlo a lungo. Perché non ho ancora finito…“.