“Roberto Baggio porta il codino: è troppo eccentrico per non dare nell’occhio. Ancora: il suo gioco è troppo particolare e disagevole per riuscire sempre al meglio. Il pregio di Platini era la semplificazione. Baggio è un asso rococò: mette il dribbling anche nel caffellatte. Solo sul piano balistico eguaglia Platini, non già nella misura del gioco”. Descrivere, rappresentare, raccontare, ritrarre una leggenda richiede la mano, l’occhio, l’animo e la grandezza di un altro gigante. Come si può iniziare a raffigurare l’immagine di uno dei più grandi del calcio, se non facendo appello alle parole di una delle menti più illuminate della storia del giornalismo sportivo: Gianni Brera. Le parole riportate appartengono al suo genio e risalgono al 1992, dedicate a due degli astri più luminosi dell’epoca: Roberto Baggio e Michel Platini.
17 anni fa, uno di questi due astri, ovvero Roberto Baggio salutava il calcio disputando la sua ultima partita in un tempio del calcio: San Siro. Era il 16 maggio 2004. Ultima giornata di campionato: si gioca Milan-Brescia. I rossoneri hanno già conquistato il 17esimo scudetto da settimane e, La Scala del Calcio, è adibita e preparata solo per rendere omaggio ad uno dei più grandi del pallone. Paolo Maldini lo celebra, lo saluta. La festa tricolore del Milan passa totalmente in secondo piano: quel giorno si saluta il più brasiliano degli italiani, il più ordinato dei caotici. La partita terminò 4-2 ma, ciò che rimase impresso, fu quella mano alzata al cielo del Divin Codino, con semplicità perché erano i piedi a sfoggiare l’imponderabile.
Baggio lasciava in dote 291 gol in 643 presenze da professionista. Da Vicenza a Brescia, passando per Firenze, Torino (Juventus, ndr), come anche Milano che lo ha visto indossare i colori di ambo le compagini. Un pallone d’oro nel 1993, le storiche lacrime del Mondiale 1994. Baggio è stato ispirazione, la storia di un uomo normale resosi infinito e interminabile. un’impronta indelebile nel calcio e nella cultura di massa, fino a rendersi un emblema di un periodo storico per l’Italia. La grandezza di una leggenda, nel corpo di un uomo con dei valori unici espressi nelle parole del suo ultimo allenatore: Carlo Mazzone. “Era puntuale, serio e la domenica mi faceva vincere. C’era un patto con lui. Non mi piaceva che quando si andava in trasferta i tifosi invadevano l’albergo e lui non aveva un attimo di respiro. Un giorno gli dissi “Quando sei stanco di firmare autografi, ti tocchi la testa e io intervengo”. Ma lui non si toccava mai la testa e allora sbottai “Aho, ma non ce l’hai una testa?”. Lui mi rispose “Mister, come posso deludere gente che ha fatto centinaia di chilometri per incontrarmi?”.