Accadde oggi: muore ad Auschwitz l’allenatore Árpád Weisz

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Il calcio, nel suo secolo abbondante di vita, ha avuto la capacità di attraversare, e lasciarsi attraversare, dalla Storia. Quella con la “S” maiuscola. A volte da semplice spettatore, altre come inconsapevole teatro di tragedie inenarrabili. Come l’avvento del Fascismo in Italia, e delle leggi razziali, che hanno sconvolto la quotidianità di tutti, anche di calciatori e allenatori. Le cui storie, spesso, sono finite nell’oblio, mescolate a quelle, altrettanto tragiche, di milioni di altre vittime della follia nazifascista. Qualche anno fa, a rendere almeno parzialmente giustizia ad una di queste, ci ha pensato il giornalista Matteo Marani. Che ha ripercorso, in un libro bellissimo, “Dallo scudetto ad Auschwitz”, la vita di Árpád Weisz, spesso scritto in Italia Arpad Veisz, in una italianizzazione tipica del Ventennio, per quanto impossibile.

La sua, è una storia emblematica, sia di quanto la follia sia del tutto cieca, sia della normalità con cui un intero Paese ha accettato le peggiori aberrazioni senza, quasi, battere ciglio. Árpád Weisz, di cui la memoria collettiva, così come quella calcistica, ha perso le tracce per decenni, è stato uno dei più grandi allenatori della sua epoca. Come scrive Marani: “Fatto sta che di Weisz, a sessant’anni dalla morte, si era perduta ogni traccia. Eppure aveva vinto più di tutti nella sua epoca, un’epoca gloriosa del pallone, aveva conquistato scudetti e coppe. Ben più di tecnici tanto acclamati oggi. […] Sarebbe immaginabile che qualcuno di loro scomparisse di colpo? A lui è successo”.

Nato a Solt, in Ungheria, nel 1896, di famiglia ebrea, dopo una carriera senza grossi squilli da calciatore, conclusa nel 1926 nelle fila dell’Inter, decide di lanciarsi in quella di allenatore. Viaggia tra Ungheria, Uruguay e Alessandria, prima di arrivare sulla panchina dell’Inter. Che, nel frattempo, diventa Ambrosiana, per volontà fascista, che cambia anche il suo nome, diventato nel 1929 “Veisz”. Sarà l’anno del primo campionato a girone unico, che Árpád Weisz vincerà proprio alla guida dei nerazzurri. L’allenatore ungherese aveva appena 34 anni, ed è ancora oggi il più giovane mister straniero ad aver vinto il campionato italiano.

I suoi metodi, allora, erano a dir poco rivoluzionari: esponente della mitica scuola danubiana, i principi di gioco di Árpád Weisz rimarranno alla base del calcio europeo fino agli anni Sessanta. Preparazione fisica, dieta, e capacità di scouting (fu lui a lanciare il giovanissimo Giuseppe Meazza) ne fecero un innovatore. Dopo l’Ambrosiana, finisce al Bari, dopo una sola stagione torna in nerazzurro e passa quindi al Novara. La seconda tappa fondamentale della sua vita calcistica, però, è a Bologna, città del potente gerarca fascista Leonardo Arpinati. Che nel calcio, come mezzo per conquistare le masse e i consensi, crede ciecamente.

Árpád Weisz prende una squadra in evidente difficoltà, e dopo una stagione di transizione porta alla città felsinea due scudetti, quelli del 1936 e del 1937. Riesce, in un colpo solo, a spezzare l’egemonia della Juventus e a diventare il primo allenatore a vincere lo scudetto alla guida di due squadre diverse. Poi, cambia tutto. Nel 1938 le leggi razziali lo costringono a riparare prima a Parigi, quindi nei Paesi Bassi. Qui, alla guida del piccolo Dordrecht, conquista una salvezza e due ottimi piazzamenti, battendo le corazzate Ajax e Feyenoord. L’Europa, intanto, precipita nel secondo conflitto mondiale, che inghiotte tutto e tutti. Le truppe naziste occupano l’Olanda, e per gli ebrei non ci sarà più lavoro né pace.

Per qualche tempo Árpád Weisz riesce a sopravvivere grazie all’aiuto della sua ex squadra, ma nel 1942 la stretta diventa definitiva. Il 2 agosto la Gestapo arresta tutta la famiglia: l’allenatore, la moglie e i due figli. Dopo un breve periodo nel campo di transito di Westerbork, l’arrivo ad Auschwitz, il 2 ottobre. Il 7 ottobre, la moglie Elena e i figli Roberto e Clara muoiono nelle camere a gas. Árpád Weisz no, per lui inizia una lunghissima agonia, che lo porta per quindici mesi nei campi di lavoro dell’Alta Slesia. Ormai distrutto e spremuto, viene ricondotto ad Auschwitz, dove trova la morte, il 31 gennaio 1944, in una camera a gas. Ci vorranno più di sessant’anni perché la sua storia venga raccontata, e perché il calcio torni a ricordare, e a celebrare, la figura di Árpád Weisz, vittima dell’Olocausto e della follia nazifascista.