(Photo by Jan Kruger/Getty Images)

Un paio di mesi fa, forse senza che le venisse data la giusta importanza, è stata presentata la ricerca “Fan of the Future”, commissionata dalla European Club Association, per definire ed analizzare la fanbase del calcio nel mondo. Al centro dello studio, migliaia di tifosi di sette Paesi diversi: Gran Bretagna, Spagna, Germania, Polonia, Olanda, India e Brasile. L’obiettivo, è capire la percezione che si ha del pallone, e che livello di coinvolgimento esiste tra i più giovani, i tifosi, ma anche i consumatori, del futuro.

Ad eccezione dell’India, dove il cricket la fa da padrone, il calcio è ancora lo sport che genera il maggiore entusiasmo. Il 38% degli intervistati si dice “fan” o “molto fan”. Con un’eccezione, in termini di fasce di età: la più importante, specie in ottica futura, quella dei giovani tra i 16 ed i 24 anni. Tra i quali l’entusiasmo è ai livelli più bassi in assoluto: appena il 28% si dichiara “fan” o “molto fan”. E la cosa peggiore è che il 40% di loro dice di odiare o non essere interessato al calcio. In sostanza, solo un giovane su tre è effettivamente un appassionato di calcio. Generazione ondivaga, difficilissima da guidare e da capire, ma che mostra una crepa importante tra il calcio ed il mondo reale.

Tra chi non ha interesse per il calcio, dietro ad un disinteresse di fondo, rispetto al quale c’è ben poco da fare, per il 24% dei rispondenti,c’è un motivo che deve far riflettere: “Non mi piacciono i fan del calcio o la cultura calcistica”. Subito dietro, i troppi soldi che girano intorno al calcio, motivo di fastidio per il 23% di chi non segue il pallone, e al quinto posto l’irrilevanza del calcio nella quotidianità (22%). Ma non finisce qui, perché secondo l’11% di chi non ama il calcio il problema è che il pallone non fa abbastanza per rendere il mondo un posto migliore. Il calcio, cioè, non è parte attiva nelle dinamiche sociali e, inoltre, non difende la diversità (7%) e non è abbastanza inclusivo (5%).

Tolte le prime due motivazioni, le altre, tra chi ha smesso di seguire il calcio, hanno ancora più rilevanza. È un campanello d’allarme da non sottovalutare, al contrario. La ricerca commissionata dalla European Club Association è corposa, e va poi ad analizzare le nuove modalità di fruizione, specie tra i più giovani. Ma ciò che emerge con forza è il disamore, ed i motivi che si annidano dietro ad esso. Non che ci volesse uno studio, per certificare lo stato del calcio, ma di certo dà la misura, e la forma, dei limiti che palesa da anni. E che deve imparare, specie nella nostra Serie A, a scrollarsi di dosso.

Per sua stessa natura, il pallone scatena istinti e passioni, a volte le più becere e basse. Ma se non impara a leggere il cambiamento della realtà in cui è calato, rischia di restare nella dimensione in cui è oggi. Ancora una volta, sono gli sport americani il termine di paragone più evidente. Perché dimostrano, specie negli ultimi anni, che lo sport professionistico non può più rinchiudersi nella propria torre d’avorio.

La quotidianità riguarda tutti, anche i campioni del calcio, seguiti da milioni di persone (aka consumatori), che da loro si aspettano qualcosa di più. Si aspettano che prendano posizione, che si impegnino, che assumano appieno il ruolo sociale che è loro riconosciuto. In maniera, ovviamente, propositiva e costruttiva. Qualcosa che in molto, in effetti, hanno iniziato a fare, almeno in Inghilterra.

E in Italia? Il calcio sembra ancora distante dalla realtà, con troppi tabù ed un’endemica incapacità persino di prendere le distanze dalle peggiori espressioni maschiliste e razziste. Con esternazioni che, troppo spesso, non fanno che rafforzare l’ostracismo dei tanti che, negli ultimi anni, si sono disamorati dello sport più bello del mondo. Anche la stampa, megafono del bello e del brutto, aggiungiamo, può giocare un ruolo diverso: premiando quanto c’è di bello, e stigmatizzando il tanto che ancora c’è di brutto.