(Photo by MIGUEL MEDINA/AFP via Getty Images)

Antonio Conte è un allenatore vincente. Non è un dogma, ma la realtà raccontata da numeri e bacheca. Arrivato da lontano, dai campi – non così polverosi – di Arezzo, Bari, Atalanta e Siena, ha riportato la Juve fuori dalla mediocrità. Dopo tre scudetti consecutivi, due anni da ct degli Azzurri, molto ben pagati: nessuno, in effetti, aveva mai strappato un contratto tanto ricco alla Federazione.

Un biennio che culmina con un Europeo dignitosissimo, ma ricordato forse con più enfasi di quanto meriti. Nel girone, infatti, abbiamo superato Belgio e Svezia, senza brillare, perdendo l’ininfluente scontro contro l’Irlanda. Il capolavoro, Antonio Conte lo fa agli ottavi, quando la sua Italia vendica l’umiliazione di quattro anni prima annientando la Spagna. Finisce 2-0, un trionfo che fa gonfiare il petto a un Paese che da dieci anni, calcisticamente, aveva raccolto ben poco. È la Nazionale di Pellè, Eder, Giaccherini e De Sciglio. Ma anche di El Shaarawy, Insigne e Bernardeschi, relegati in panchina.

L’avventura azzurra finisce il turno successivo, dopo una grande prova di carattere contro la Germania. Ci puniscono i rigori, imbarazzanti, di Zaza e Pellè. Il sogno finisce, Antonio Conte ringrazia, si prende i giusti meriti, e monetizza. Il Chelsea offre 6,5 milioni di sterline l’anno, più di lui in Premier, nel 2016, guadagnavano solo Pep Guardiola, José Mourinho, Arsene Wenger e Jurgen Klopp.

Soldi ben spesi, perché al primo colpo, nel più competitivo dei campionati, la spunta lui. I Blues, non i più forti della presidenza Abramovich, chiudono al primo posto, con 93 punti, 7 in più del Tottenham, 15 sopra al City e 17 sopra al Liverpool. In estate, il club londinese spende quasi 200 milioni di euro per accontentare le richieste di Conte, ma più della metà del budget arriva dalle cessioni.

Arrivano Rudiger, Morata, Bakayoko, Zappacosta, Drinkwater, e a gennaio Emerson Palmieri e Giroud. Non bastano a bissare il successo dell’anno precedente, perché il City ammazza il campionato, chiude a 100 punti, e il Chelsea finisce addirittura quinto, con 30 punti in meno. Qualcosa si è rotto, in campo e fuori, e gli scarsi risultati alla fine sono poco più di una scusa per esonerare il tecnico italiano. Che resta fermo un anno, a libro paga del Chelsea, prima di tornare ad allenare, nel 2019.

Sceglie l’Inter, che per convincerlo gli offre una cifra vicina ai 12 milioni di euro netti l’anno per risollevare le sorti dei nerazzurri. Insieme a Conte, a Milano arrivano anche Barella, Sensi, Godin, Politano, Lukaku, Sanchez, Bastoni: una vera e propria rivoluzione tecnica. In estate qualcuno parla di scudetto, ma ci pensa lo stesso Conte e raffreddare gli animi. È troppo presto, la squadra non è ancora all’altezza della Juventus. Sarà il ritornello di tutta la stagione. Anche se i bianconeri il campionato lo lasciano aperto quasi fino alla fine, permettendo a Inter, Lazio e Atalanta di rientrare in corsa più di una volta.

Alla fine, arriva un secondo posto accolto dai più con enorme soddisfazione. Dalle parti della Pinetina, non si vedeva dal 2011 la piazza d’onore. E poco importa che in Champions League l’avventura sia finita ai gironi di qualificazione. Esattamente dove è destinata ad impantanarsi quest’anno. Dopo un’altra campagna acquisti importante, almeno per il periodo storico che stiamo tutti attraversando. Non sufficiente, secondo Conte, che ha cominciato la stagione seguendo lo stesso mood di un anno fa. La squadra non è ancora all’altezza. E poco importa che il Sassuolo le stia sopra in campionato, o che chiuda il proprio girone di Champions dietro a Shaktar e Glabach.

Conte è un vincente, dicevamo. Vero, ma non vince da un po’. E, soprattutto, sembra aver perso da un po’ il bandolo della matassa. In campo e fuori. La strategia della bolla contro tutti non funziona più. Perché i risultati, semplicemente, non arrivano. Gli arbitraggi, del resto, non hanno influito più delle pessime prestazioni dei suoi. Il carattere, che c’è a fasi alterne, almeno a risentire le parole dell’allenatore interista, non è che una componente. L’altra, la più importante, è il campo. Dove le idee sono sempre più confuse, tra ostracismi malcelati (come quello per Eriksen, strapagato a pochi mesi dalla fine del contratto e in panchina da quasi un anno) e dogmi imprescindibili.

Chiedere di fare, almeno nella comunicazione, un passo indietro a Conte, sarebbe come chiedere a George Best di smettere di dribblare. Però, al netto degli investimenti fatti sin qui da Suning, un mea culpa, se non pubblico almeno nello spogliatoio, il tecnico pugliese dovrà farlo. Perché il flop europeo che un anno fa arrivò in un girone obiettivamente difficile quest’anno arriva in uno dei più abbordabili. E perché l’Inter merita qualcosa di più, anche in termini di onestà intellettuale. E se è vero che tanto giornalismo soffia sempre sulla brace della polemica facile, è ancora più vero che alcuni allenatori non conoscono l’umiltà.