La corsa agli Europei e il pericolo del liberi tutti

Calcio

(Photo by Massimo Insabato via Imago Images)

L’Italia ha bisogno di certezze. Lo raccontano le tensioni delle ultime settimane, con i ristoratori e i commercianti scesi in piazza chiedendo di poter tornare a lavorare. Lasciamo da parte i toni, e i modi, e per un attimo proviamo a considerare solo l’oggetto delle proteste. Ossia il diritto al lavoro, ma anche al ritorno alla normalità. Che, ovviamente, deve ancora fare i conti con la pandemia, che continua a mordere e a mietere vittime, giorno dopo giorno. La campagna vaccinale avanza a rilento, in Italia come in buona parte della Vecchia Europa, ma pianificare e calendarizzare la riapertura delle attività economiche non solo è necessario, ma anche doveroso. In questo contesto, rientra anche il calcio, attività economica come tante altre, bisognosa, come tante altre, di tempi certi.

La lettera del sottosegretario allo sport, Valentina Vezzali, al presidente della Federcalcio, Gabriele Gravina, che ha rassicurato la Figc sull’apertura parziale dell’Olimpico per le gare di Euro 2020, è da considerarsi un’ottima notizia. Sulla quale, senza dubbio, ha pesato il quadro politico. Lo scontro, tutto verbale, tra il Presidente del Consiglio Mario draghi ed il Governo Turco, ha risvolti un po’ ovunque. Anche nel calcio, con la Turchia che, viste le difficoltà dell’Italia, si era fatta avanti per ospitare a Istanbul la gara di inaugurazione tra gli Azzurri e la stessa Turchia. Una proposta dettata più dall’opportunità che dalla generosità, ma che ha avuto quantomeno l’involontario merito di accelerare i tempi della giurassica burocrazie italiana.

All’Olimpico, l’11 giugno, il pubblico potrà riempire almeno il 25% dei 69.000 posti disponibili. In soldoni, 17.250 paganti, con la mascherina, e ci mancherebbe altro, e a debita distanza. Sarebbe, ma crediamo di poter dire “sarà”, l’inizio della fine, non solo simbolicamente, della pandemia, dopo 14 mesi di stadi deserti. Addio alle chiacchiere tra panchina e giocatori, che accompagnano scontri scudetto dal sapore del calcetto del mercoledì sera. Bentornato tifo, composto, tutt’altro che indiavolato, ma pur sempre tifo.

Ovviamente, l’apertura del Governo e le rassicurazioni sugli Europei, hanno subito fatto sognare i tifosi. Che adesso sperano, forse inutilmente, in una parziale riapertura per le ultime giornate di campionato. Che terminerà il 23 maggio, tra poco più di un mese. E qui torniamo all’inizio, e chiudiamo il cerchio. Può, un Paese che non ha ancora saputo dire a una fetta enorme del proprio tessuto economico – quella del turismo, della ristorazione e del commercio – quando potrà tornare a lavorare, permettersi di riaprire gli stadi? Se lo facesse contestualmente alle altre necessità, perché no? Ma il timore, forse infondato, è che si rischi di dare al popolo un contentino (panem et circenses) senza che ce ne siano le condizioni.

In numeri, infatti, sono numeri, e a questi ritmi a metà maggio la campagna vaccinale avrà forse coperto, con la prima dose, tutti gli over 70. Sarebbe già qualcosa, il passo più importante per difendere i più anziani e i più deboli, e permettere all’Italia di ripartire, ma forse non abbastanza per riaprire gli stadi. A meno che, non si intenda per “riapertura” quello spettacolo desolante dei 1.000 tifosi in tribuna, praticamente tutti ospiti degli sponsor, che si sono visti nelle prime giornate della Serie A.

Quella roba lì, con il tifo, e con il valore sociale e popolare del calcio, non ha nulla a che spartire. Per chi attende in religiosamente di tornare a vedere dal vivo la propria squadra, definire “riapertura” la presenza di 1.000 persone in catini capaci di ospitarne 80.000, è quasi un oltraggio. Meglio i 17.250, paganti, dell’Olimpico. E ancora meglio, gli stadi pieni, magari dall’inizio della prossima stagione, in sicurezza.