(Photo by FRANCK FIFE/AFP via Getty Images)

Non ce ne vogliano Ronaldo, Messi e Immobile, ma ieri la storia non l’hanno fatta loro. La storia, ieri, l’hanno fatta i giocatori di PSG e Basaksehir, con un gesto clamoroso, che avrebbe avuto ancora più significato se al Parco dei Principi ci fossero stati i tifosi. Al minuto 14, dalla panchina dei turchi Pierre Webo, uno degli assistenti di Okan Buruk, sente per l’ennesima volta la parola “negru”, con cui lo qualifica il quarto uomo Sebastian Coltescu, comunicando con l’arbitro Hategan. Coltescu richiama l’attenzione del direttore di gara per le intemperanze della panchina ospite, dicendo testualmente: “Quello nero laggiù. Vai a controllare chi è. Quello nero laggiù, non è possibile comportarsi in questo modo”.

Quel “nero” è Ewibo, che non ci vede più, e chiede, giustamente, spiegazioni. “Perché hai detto negru?”, domanda più e più volte al quarto uomo. Che, più che rispondere, balbetta e ciancica scuse imbarazzanti. Come la scarsa conoscenza della lingua inglese, del tutto fuori luogo visto che la conversazione è in rumeno. “Negru”, in rumeno, equivale al “nero” italiano, ed è qui che casca l’asino, ossia Coltescu. Come gli ha ricordato in campo l’esperto attaccante senegalese del Basaksehir Demba Ba, “Quando parli con i ragazzi bianchi li chiami solo ragazzi, quando ti rivolgi ai ragazzi di colore usi il termine ragazzi neri! Perché?”.

Già, perché? Perché nel 2020 non è ancora chiaro che rivolgersi – in prima o in terza persona non fa alcuna differenza – con certi epiteti, è sbagliato? Perché nel 2020 il calcio è ancora il teatro delle peggiori bassezze? E perché un arbitro di 43 anni, non alle prime armi in Europa, non si rende neanche conto della gravità del proprio vocabolario? Tutte domande per le quali, in realtà, non servono risposte. Sarebbero tardive e inutili. La realtà del calcio la conosciamo bene. E un gesto forte come quello di ieri, con i calciatori delle due squadre che, di comune accordo, lasciano il campo in segno di protesta, per non rientrare più, non si era mai visto.

Un gesto potente e necessario, capace di mettere a nudo l’arretratezza culturale di un mondo e di uno sport lontano anni luce dai principi che dovrebbero muoverlo. Il razzismo è tutt’altro che strisciante, e troppo spesso l’indulgenza dei media (specie in Italia) ha rimandato il momento di un vero salto di qualità. L’inclusività e l’uguaglianza sono concetti cari alla Uefa, meno ai giocatori e ai presidenti, ancora meno ai tifosi. Ma una rivoluzione culturale è necessaria, e non avverrà dal basso, ma dall’alto. E poco importa se qualcuno ci troverà “politici”, perché ogni scelta, in fondo, è “politica”. Condannare e combattere il razzismo, in tutte le sue forme, che per noi è un fatto di semplice civiltà, deve diventare il grande obiettivo del calcio europeo.

Altro che riforma dei campionati, salary cup, terza coppa. Se il calcio non decide davvero di sbarcare nel terzo Millennio, diventandone protagonista positivo e attivo, non ha futuro. E per farlo ci vogliono gesti forti e simbolici, come quello messo in scena ieri dai giocatori di PSG e Basaksehir. Che hanno scritto un pezzetto, importantissimo, di storia. Adesso, sta ai dirigenti della Uefa non sprecare l’occasione, con regole forti, che puniscano chi sbaglia, lavorando in sinergia con i club. Per dare un calcio al razzismo, un calcio vero, fuori di metafora. Che prescinda dai distinguo, dai però, dalle ragazzate.

Dobbiamo imparare, tutti, a imparare a chiamare le cose con il loro nome. Se un arbitro parla di un giocatore definendolo “nero”, è razzista. Non ci sono “se”, non ci sono “ma”. E il motivo l’ha spiegato bene Demba Ba: perché un giocatore bianco nessuno lo chiama “bianco”? E, soprattutto, perché ci nascondiamo ancora e sempre dietro un dito? A decidere cosa è offensivo e cosa no, cosa è razzista e cosa no, non è chi parla, ma chi ascolta, chi da un certo epiteto viene definito. Senza retorica, fuori dai canoni del politicamente corretto, un arbitro come Coltescu non deve mai più mettere piede in un campo di calcio, né in patria né in Europa.

Ma è quando gli stadi riapriranno le porte ai tifosi che si tornerà a giocare la partita più difficile. Con una nuova certezza: anche i giocatori ne hanno abbastanza. E, soprattutto, hanno un potere enorme, e tutta l’intenzione di usarlo. Quello, cioè, di decidere di fermarsi, di dire basta, di uscire dal campo. Lasciando tutti noi a bocca aperta, ammirati, per una volta, di fronte ad un atto di coraggio. Una vera rarità in un mondo monolitico e conservatore come quello del calcio.