Ancelotti, all’Everton per fare la storia

Carlo Ancelotti

Quando Carlo Ancelotti firmò per l’Everton in molti ci chiedemmo perché l’avesse fatto. Perché accettare un incarico solo qualche giorno dopo la fine di un’avventura disastrosa. Non sarebbe stato meglio aspettare e prendersi del tempo? E, soprattutto, per quale motivo allenare i Toffees, la seconda squadra di Liverpool. Un club incapace di vincere la Premier dall’87, l’FA Cup dal ’94, e che non ha mai partecipato alla Champions League come la conosciamo oggi. L’ultima apparizione nell’Europa che conta è datata 1970/71 (si giocava la Coppa Campioni, che fu vinta, tra l’altro, per la prima volta dall’Ajax di Cruijff).

Ebbene in un’intervista al Guardian, Carletto rispose quasi subito: “Avevo tanta voglia di tornare a lavorare in Inghilterra, ma soprattutto sono stato attratto da un progetto proiettato nel futuro: l’obiettivo è competere con i club più forti, ci sono giocatori giovani e interessanti, stiamo pianificando il nuovo stadio, la società ha intenzione di investire sul mercato per crescere in maniera esponenziale nei prossimi anni”. Sembravano parole di circostanza ma non lo erano.

Il sogno di Farhad Moshiri

Ancelotti aveva accettato l’Everton, e il sogno e il progetto del suo proprietario, tale Farhad Moshiri. Un imprenditore anglo-iraniano, già da tempo nel mondo del calcio, con un patrimonio da 2,5 miliardi di dollari e l’ambizione di prendere una nobile decaduta d’Inghilterra e trascinarla alla gloria. Come? Attraverso i ricavi, sfruttando la leva commerciale fornita dall’appeal del calcio inglese.

Dicono di fare sempre ciò che ci riesce meglio. Moshiri sa investire e fare soldi, bastava farlo anche nello sport. Dal 2016 ha stanziato circa 400 milioni di euro nella società, gli introiti sono aumentati del 90% e il club ora (secondo Deloitte) ha il 19esimo fatturato d’Europa. Il successo finanziario, però, va accompagnato da quello sportivo, ecco che l’ex tecnico di Napoli e PSG entra in scena.

Il 21 dicembre 2019 firma un contratto di quattro anni e mezzo, gli vengono affidati pieni poteri in campo e sul mercato e, in più, diviene il primo rappresentante del brand Everton, la sua immagine da top-manager europeo dovrà trainare quella del club ad uno step successivo: quello di top club.

Campo e uomini

Non potendo fare diversamente comincia dal giocato, dunque campo e uomini. Nonostante la squadra versasse in condizioni allarmanti, a pochi punti dalla zona salvezza, mostrava comunque un’identità tattica ben definita: quella storica dei toffees.

Un’identità bel lontana dal calcio di posizione e di possesso ma vicina all’idea di gioco all’inglese e della città. Si gioca con difesa ad accorciare il campo, pressing alto, riconquista grintosa sulle seconde palle, palla lunga e risalite del campo veloci. Ancelotti non fa altro che prenderne i punti di forza ed esaltarli, schierando un undici fisico e pronto all’attacco della profondità, accettando però il compromesso della perforabilità difensiva di tale assetto.

Alla base di un calcio alquanto semplice bisogna adottare un modulo semplice, dunque 4-4-2, capace di premiare i movimenti su citati e appunto gli uomini. Difesa a quattro, due centrali, due esterni offensivi (tra Walcott, Bernard, Sigurdsson, Gordon e Iwobi) e due attaccanti: una seconda punta fantasiosa (Richarlison) e un divoratore di spazi (Calvert-Lewin).

L’Everton col futuro da big

Il primo risultato sportivo è quello di trascinare i toffees fuori dalla zona retrocessione e portarli al ridosso dell’Europa League, anche se distanti 9 punti dal Tottenham. Posizione di certo non eccezionale, né miracolosa, che tra l’altro segna per Ancelotti un record negativo in quanto il tecnico emiliano accedeva alle Coppe ininterrottamente dal 1996, ma che permette allo stesso tecnico di lavorare con maggiore serenità al progetto di Moshiri: l’Everton col futuro da big.

Un Everton, soprattutto, con la struttura da big, fatta di giovani, punti fermi al centro del progetto e una squadra dinamica.

In primis si pensa a bloccare in città gli elementi dal potenziale fantastico sui quali costruire il prossimo ciclo: Holgate (23), Davies (21), Gordon (19), Calvert-Lewin (23), e se non andrà via anche Kean (20). Dai giovani si passa poi alle certezze da confermare: non a un caso sono partiti solo Schneiderlin (30), Stekelenburg (37) e Sidibé (28) a fine prestito, anche se per il terzino si sta lavorando al ritorno.

Acquisti importanti ma soprattuto oculati

Da qui il prossimo step che recita: acquisti importanti e oculati per poter puntare da subito ad un posto in Champions, vero obiettivo per la prossima stagione.

Il primo ad arrivare è Allan, un vero affare a soli 25 milioni, mediano straripante e incontenibile sotto la gestione Ancelotti a Napoli.

Successivamente è il turno del feticcio (e di un altro affare per 25 milioni) del tecnico emiliano: James Rodriguez, per il quale Carletto aveva già fatto carte false sotto il Vesuvio non riuscendo nel suo intento. L’Everton aveva bisogno di un leader tecnico, un elemento di raccordo, fondamentale nella fase di possesso, capace di giocare tra le linee permettendo lo sviluppo di un gioco avvolgente. James, che ha imparato ad usare il corpo secondo i principi del gioco di posizione e valorizzare i movimenti dei compagni di squadra, orientando le transizioni, è stato ritenuto perfetto. Se consideriamo poi che il colombiano in 51 partite giocate sotto la guida del suo mentore (tra Real e Bayern) ha collezionato la bellezza di 18 gol e 19 assist, non possiamo che avallare la scelta.

A chiudere il mercato, almeno per ora, l’acquisto di Abdoulaye Doucouré mediano francese del Watford, la cui ufficialità è arrivata solo ieri.

In definitiva la risposta ai nostri perché

La sensazione in definitiva, restituita anche dal mercato, è che siamo dinanzi ad un progetto serio, coerente, che abbia tracciato in maniera lucida tutti i passi da effettuare per il raggiungimento dell’obiettivo massimo. Tutti i perché che avevamo sull’approdo di Ancelotti all’Everton trovano risposta. Carletto ha scelto di essere non più e non solo un allenatore ma molto di più: l’artefice di una missione complessa, di una transizione, di un pezzo di storia del calcio inglese.