Milan, Maldini: “Il mio idolo è stato Baresi. Con il calcio impari la disciplina”

Maldini Milan

(Photo by MARCO BERTORELLO, Onefootball.com)

In una lunga intervista concessa nel podcast “m2o” il direttore dell’area tecnica del Milan Paolo Maldini ha parlato tra le altre cose degli inizi della sua carriera e di alcuni importanti riferimenti personali, tra cui l’ex difensore Franco Baresi e il padre Cesare. Di seguito le sue parole riportate da TMW.    

Maldini Milan
(Photo by Emilio Andreoli, Onefootball.com)

Si esce solo quando si vince… 

Vincevamo spesso e questo aiutava. È normale, non te la senti di uscire se la partita va male, la vivi come una vergogna, la sconfitta, dovrebbe invece far parte del mondo dello sport. Devi fare sempre molta attenzione, puoi suscitare qualche reazione della gente. Giocando anche le Coppe Europee e vincendo anche lì, alle volte si faceva doppietta“.

Le “distrazioni” di oggi per i calciatori 

I social hanno una vita propria, fa parte della vita del calciatore. Ai miei tempi c’era molta più libertà perché c’erano meno fotografi, meno gente curiosa, potevi fare la tua vita in maniera più libera e normale. L’idea che escano più o meno, non lo so… Ho conosciuto il mio fisico strada facendo, ho imparato a gestirmi, anche sbagliando. Prova, sbaglia ma impara. Questo è quello che dico loro, dovrebbe farlo ogni papà con i propri figli“.

Si può vincere ma anche divertirsi 

Avevo diritto a divertirmi, c’è un’età per tutto. Questo mi ha aiutato a conoscere altre persone, misurarmi con altre cose. A vent’anni ti devi anche divertire. A livello lavorativo ho iniziato a essere un professionista a 16 anni, una parte di quell’età l’ho persa, non uscivo mai al sabato e alla domenica. Quando poi mi sono consolidato da titolare ho avuto la voglia e la forza di uscire. È un processo, devi imparare. La persona più preoccupata era mio papà, è stato calciatore, aveva una mentalità anni 60 e per uscire dal ritiro dovevi scappare. 

Io uscivo, ma sono astemio. Non bevo, non fumo, non mi sono mai drogato. L’obiettivo della mia vita era quello di essere performante nel mio lavoro. Mi ero posto degli obiettivi chiarissimi, talvolta anche sbagliando. Quello credo sia un processo, in maniera istintiva, un po’ provando e un po’ sbagliando, superando i miei limiti. Quando la sera fai veramente tardi, alle 8 devi fare allenamento… Ti metti anche alla prova, come starò il giorno dopo? Io ero forte fisicamente e mi misuravo spesso contro me stesso. 

È una scelta, alle volte è una scusa, non capire il momento. Riuscire a tenere i piedi per terra è fondamentale, devi avere un’educazione tosta. A casa, ma anche con le giovanili. Ho iniziato a dieci anni, pensavo agli orari, al sacrificio, al giocare per la squadra. Prima andavi a scuola fino all’una, in giro c’erano un sacco di cose che ti potevano portare a fare altro. Ti ponevano degli obiettivi, delle regole, degli orari. Non dovevi pensare a te ma alla squadra. Sono stato contento quando i miei figli hanno deciso di fare quest’esperienza”.  

Padri e figli 

“Quando è nato il mio primo figlio, non ti nego che fossi molto contento. Ho visto mio cognato, con mia sorella, ha avuto due femmine… Solo danza, danza, danza. Essendo nato in questo ambiente ero contento di avere un maschio, poi anche il secondo e mia moglie era contenta. Mi ha fatto piacere, ma poi molto fastidio: la pressione del papà calciatore, gli occhi puntati tra i 10 e i 12 anni quando sei ancora un bambino. Tutta questa attenzione ha dato fastidio a me, ma soprattutto a loro. La strada è stata difficile per farsi valere”. 

Il pregiudizio di essere figlio d’arte 

Nei campetti di periferia un po’ sentivo la pressione. Lo sport in generale è molto democratico, alla fine decide il campo, la raccomandazione non esiste. Chi determina chi sei è il campo, ma esiste il pregiudizio. Non dico che non mi sia servito, hai due tipi di reazione, quella di mollare subito, oppure fare vedere agli altri che si sbagliano. Ho avuto la seconda, mi ricordo quei momenti. Ma non è scontato, da bambino ero molto più introverso per questa cosa qua“.

L’importanza di Franco Baresi

Quando vedevo Franco Baresi giocare era il massimo, anche in allenamento piuttosto moriva rispetto a prendere gol. Parlava poco, faceva molti fatti. È stato un esempio che mi ha indicato una via che già sentivo mia”. 

Il ritiro da calciatore e la terza vita 

Ho scelto di ritirarmi nei primi tre mesi, con il derby all’inizio e il Barcellona dopo… Quello che ti manca è l’adrenalina della partita. È la cosa che ti è cambiata di più all’inizio, poi te ne fai una ragione. Poi fai delle cose banali, come prendere caffè con gli amici, cosa che non avevo mai fatto. Non avevo una vita con degli impegni e degli orari fissati. Una seconda vita, questa invece è una terza: tra ufficio e Milanello, dove si allenano, dove stai all’aria aperta. Stai in panchina e guardi l’allenamento, parli con giocatori e allenatore. Per dodici anni ho fatto tutt’altro, sono stato negli Stati Uniti, volevo aprire un hotel per due anni, poi ho cambiato progetto. Mi sono goduto figli, moglie e amici, cose che avevo trascurato. Volevo fare la mia professione al massimo“.