Una guerra di Serie A: perché il conflitto ucraino ha monopolizzato anche il calcio

Ucraina conflitto Serie A

Ucraina conflitto di Serie A (Getty Images)

Hannah Arendt ha riflettuto parecchio sulla banalità del male: quella sensazione che assale inconsapevolmente chiunque è abituato alla barbarie. Tanto da sviluppare una sorta di “effetto Placebo”, quasi istinto protettivo, che riesce a convivere con la scelleratezza allontanandola da sé. È diverso dalla rimozione, quello della banalità del male è un processo che interiorizza gli eventi senza scalfire l’anima: troppo semplice chiamarlo cinismo, più facile abbinarlo a una corazza che ciascuno di noi si fa automaticamente quando è impossibile scendere a patti con gli inferi della nostra anima.

Le guerre ci sono sempre state e sempre ci saranno, ma nonostante il mondo globalizzato ciò che succede fuori dall’Europa – sul piano epidermico – resta lontano da noi. I morti restano sempre degli altri, così come le vittime: lo abbiamo visto con il Covid, finché non ha bussato in Italia – talvolta anche dopo – per molti era una semplice influenza e non un batterio che ha fatto danni (un tempo non molto lontano) irreparabili.

Una guerra di Serie A, il conflitto ucraino vissuto “sul campo”

Malinovskyi conflitto
Malinovskyi contro la guerra ucraina (Getty Images)

Lo stesso principio vale per i conflitti: i morti in Iraq piuttosto che in Siria o in Crimea (solo perchè sono conflitti più freschi) restano in un limbo indefinito – tra oblio e negligenza – perchè ci sembra, anche se non è così, che siano lontani. Quasi impalpabili. “Banali”.

Questo è il concetto di Hannah Arendt che cessa di verificarsi nel momento in cui Putin, una mattina alle 5.00, decide di bombardare l’Ucraina a colpi di missili. Dietro casa nostra: l’Italia, che dalla Russia prende il gas (e non solo) e dall’Ucraina i campioni. Chiedere a Shevchenko. Allora quella che poteva essere una guerra “qualunque” – esattamente come le altre: sanguinosa, intensa, viscerale e svilente – diventa la guerra di tutti. Preoccupazione, ansia e agitazione.

Soprattutto quando scopriamo (si fa per dire) che in Ucraina c’è Roberto De Zerbi, l’ex allenatore del Sassuolo, con lo Shakhtar sta facendo faville, che resta bloccato in albergo per via delle bombe. Fratelli d’Italia, l’Italia chiamò ma nessuno rispose. Almeno non subito perchè non è una questione facile da risolvere. Dunque resta lì, in stallo, tra mille incertezze: dire, fare scappare.

Da De Zerbi a Fonseca fino a Shevchenko e Kaladze: il conflitto dei campioni

De Zerbi
De Zerbi, l’allenatore bloccato a Kiev (Getty Images)

Sembra un gioco di società, ma stavolta non sono ammesse rivincite. Così la guerra ucraina diventa anche “nostra”. In particolare se dopo De Zerbi parlano Fonseca (un altro che l’Italia la conosce bene dopo gli anni alla Roma), Shevchenko e Kaladze. La Serie A di ieri e di oggi, poi ci si mette anche Malinovskyi a fare il “mediatore”. La maglia “stop war” dopo il gol (doppietta per lui contro l’Olympiakos), a dimostrare una volta di più che i problemi degli altri sono anche nostri. Non basta un “sermone” di Draghi, una raccomandazione di Di Maio, perchè la classe politica ormai è lontana tanto quanto un proiettile sparato altrove. Fa male se lo senti al telegiornale, ma viverlo è un’altra cosa.

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Esattamente come la guerra. Viverla è un’altra cosa: l’Italia è spettatrice, ma consapevole, non solo per una questione di dazi e sanzioni ma anche perchè a Kiev un pezzo di Stivale c’è davvero. Oltre duemila italiani i residenti, tra cui numerose conoscenze (vecchie e nuove) della Serie A. La guerra in Ucraina sarà pure una cosa seria, ma da oggi lo è anche il pallone perché è una delle poche certezze in grado di fare da collante tra vita vissuta e possibili sviluppi. Senza contare le conseguenze. Il pallone è rotondo e, quando gira, muove il modo (e le coscienze). Non ve la prendete se un allenatore bloccato potrebbe far breccia più di un qualsiasi editorialista: è il racconto ad essere errato.

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Ci hanno convinto da secoli che il calcio è solo uno sport, invece da anni unisce o divide i popoli. Le guerre non si risolvono con le partite di pallone, anche se una anni fa ha fermato un conflitto importante, ma le partite di pallone risolvono le perplessità. Tanto vale comprendere che una rete che si gonfia può accendere i riflettori su una città che si sgretola più di mille parole e raccomandazioni. Allenatori, calciatori e tifosi sono soltanto tessere inconsapevoli di un ritorno mediatico che passa anche per il rettangolo verde. Basta non abituarsi, forse.